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  • paola gaudio

Incongruenza, ovvero come allontaniamo noi da noi stessi.



Sia in psicoterapia, che nelle più disparate situazioni relazionali, capita molto spesso di incontrare persone che lamentano di aver "perso la bussola", di essere alla ricerca del loro vero sé, della loro strada, rotta e coordinate, come se fosse diventato impossibile per loro comunicare profondamente con se stessi e dirigersi autenticamente verso le proprie mete. Insomma, il navigatore interno necessita di un aggiornamento del software. Alzi la mano chi non ha mai fatto esperienza di una simile sensazione di confusione nella propria vita.

Questo stato di disaccordo interno, tensione e squilibrio, è chiamato incongruenza, definita da Carl Rogers come "una discrepanza fra l'esperienza reale dell'organismo e l'immagine di sé che l'individuo ha quando si rappresenta quell'esperienza". 

Ma come si struttura questa discrepanza? In che modo un individuo arriva ad intercettare, nascondere e negare a se stesso emozioni e bisogni profondi, tanto da non poterli più utilizzare quali "stelle polari" delle sue azioni e, anzi, sperimentarle come elemento confusivo?

Per semplificare il più possibile questo processo, prenderò ad esempio il caso di Giacomo, bimbo di quattro anni, che ha ricevuto da poco il "regalo" di un fratellino (anche se poi non è che fosse molto convinto di voler ricevere questo dono!). Giacomo sente che molto è cambiato da quando è arrivato Mario, pensava di poterci giocare insieme, dargli i suoi giochi quando ne aveva voglia, continuare ad avere tutte le attenzioni di mamma e papà, ma qualcosa deve essere andata storta. Perché Mario non è poi così divertente! Giacomo inizia a sentire forti emozioni di rabbia e gelosia e, da bimbo quale è, avverte le forte spinta ad agire le sue emozioni, a tramutarle, cioè, direttamente in azione e comportamento. Un giorno, così, si avvicina alla culla di Mario, lo solleva e prova a farlo cadere. Fortunatamente, mamma Lucia ferma Giacomo, prende in braccio Mario, lo accarezza e (qui viene la sfortuna) inveisce contro Giacomo dicendogli: "Non devi esser geloso di Mario, devi volergli bene! I bravi fratelli maggiori proteggono i loro fratellini e non si comportano così!".

Se un simile modello relazionale si reitera nel tempo,  Giacomo imparerà pian piano che:

- la mamma non vuole che lui provi emozioni spiacevoli come la rabbia e la gelosia (col tempo: non è socialmente accettabile provare rabbia e gelosia);

- non può provare sia affetto che odio nei confronti di Mario  (col tempo: non è possibile fare esperienza dell'ambivalenza);

- è un cattivo fratello  (col tempo: è una cattiva persona)

- la mamma gli vorrà meno bene se è cattivo (col tempo: è meno degno di amore da parte degli altri se è in contatto con le sue emozioni profonde).

Essendo il bisogno di considerazione positiva del bambino nei confronti dei genitori molto forte, poiché facilita la vicinanza fra di lui e chi si occupa della sua sopravvivenza, le emozioni, i desideri, i bisogni in contrasto con l'immagine del bravo Giacomo saranno esclusi dalla consapevolezza, "bannati"dall'esperienza cosciente. Per compiere questo duro lavoro, Giacomo (che nel frattempo cresce), costruirà delle difese ad hoc: meccanismi per cui viene effettuata una selezione rispetto a ciò che è lecito e possibile provare e sentire. 

Come sosteneva John Bowlby: "niente aiuta un bambino più del poter esprimere ostilità e gelosia in modo diretto e spontaneo, e nessun compito è più significativo, per un genitore, del saper accettare con serenità espressioni di amore filiale come "ti odio mammina". Lasciando che esprimano queste esplosioni, dimostriamo ai nostri bambini che non abbiamo paura dell'odio e che abbiamo fiducia nelle possibilità di controllarlo; inoltre offriamo al bambino un'atmosfera indulgente in cui può essere sviluppato il self-control". 

Ma allora, Lucia avrebbe dovuto permettere a Giacomo di far del male al povero fratellino? Certo che no. Ma una risposta diversa, molto probabilmente avrebbe avuto esiti differenti. "Giacomo, il fratellino si sarebbe fatto male se fosse caduto! Capisco che tu sia molto arrabbiato, cosa c'è che non va? Forse vorresti che io e il papà passassimo più tempo con te?" Di certo, in questo modo, Lucia non sta comunicando a Giacomo che sia giusto comportarsi in maniera violenta con Mario, ma sta facendo una cosa molto importante: sta validando la sua esperienza profonda, e legittimando le sue emozioni e bisogni, costruendo intorno ad esse pensiero e parole. Indirettamente gli sta comunicando che se ne può parlare e che il fatto di provare rabbia non fa di lui un bambino meno bravo o non meritevole di amore e attenzioni. Alla base di tutto ciò c'è sicuramente il presupposto che Lucia accetti la propria di ambivalenza (di cui un genitore di certo non è privo, essendo un essere umano), per poter accettare l'ambivalenza dell'altro, tutte le sue colorazioni e sfumature emotive,  e contenere le sue emozioni spiacevoli, aiutandolo ad elaborarle e a crescere in maniera congruente ed autentica.

"Ciò dimostra che la violenza, la gelosia, la cupidigia possono essere frenate con mezzi pacifici e che non c'è bisogno di ricorrere a quei drastici mezzi di condanna e punizione, che una volta fatti propri dal bambino tendono ad essere distorti dalla sua immaginazione primitiva in patologici sensi di colpa. Naturalmente questa è una tecnica basata sulla concezione secondo la quale esiste negli esseri umani il germe di un'innata moralità che, se ha l'opportunità di essere sviluppata, fornisce alla personalità infantile le basi emotive di un comportamento morale" (John Bowlby).

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