top of page
  • paola gaudio

Un'emozione... da poco?



Il periodo fortemente critico che ci stiamo ritrovando a vivere ci sta sollecitando a riconsiderare il nostro rapporto profondo con le emozioni. Quante volte ci sentiamo dire “non aver paura… stai calmo… non ti arrabbiare… non ti preoccupare… non è il momento di farsi prendere dall’ansia…”? Ma perché, più ci vengono ripetute queste frasi e meno esse sortiscono l’effetto desiderato? Cosa hanno da dirci e da urlare le nostre emozioni in questo momento? Ed è giusto ascoltarle e lasciar loro la possibilità di esprimersi e prendere spazio?


Un piccolo excursus sul significato evolutivo delle emozioni è doveroso. Nel corso della sua evoluzione, l’essere umano ha lasciato andare strumenti del suo bagaglio non più funzionali, al fine di un maggiore adattamento all’ambiente. E, nonostante la sempre maggiore differenziazione di funzioni umane, l’emozione è ancora un aspetto dell’esperienza umana così profondamente pregnante. Allo stesso tempo, sembra quasi di vedere un essere umano che si voglia sbarazzare di una così importante bussola. Per quanto, sicuramente, una capacità di regolare le modalità di espressione emotiva sia fondamentale alla vita societaria, oggigiorno si è insinuato un sottile pregiudizio sul fatto che chi è capace di vivere ed esprimere profondamente le proprie emozioni, sia da considerarsi debole o fragile.


E, quindi, a cosa servono le emozioni? Esse guiderebbero e favorirebbero i processi decisionali e di problem solving, fornendo continuamente informazioni sui nostri interessi e scopi e stabilendo una priorità di obiettivi. In questo senso, fungerebbero da connessione fra il pensiero e l’azione, regolando il funzionamento mentale della persona. Inoltre, esse svolgono un importante ruolo regolatore nei rapporti sociali, favorendo l’avvicinamento e l’allontanamento fra gli individui e regolando le distanze consone alla giusta crescita della persona nel proprio contesto sociale. Potremmo dire che il valore adattivo dell’emozione risiede nel suo essere una sorta di valutazione immediata, incondizionata e continua di ciò che accade, di raccordo fra i cambiamenti ambientali e le motivazioni e bisogni dell’individuo, rappresentando così lo strumento elettivo della tendenza della persona verso una naturale crescita ed evoluzione. Questo può succedere solo se l’esperienza emotiva non subisce blocchi e se la persona è in grado di accettare le risonanze interne (piacevoli e spiacevoli) che ogni emozione porta con sé.



Prima di procedere oltre, penso sia importante specificare che essere aperti all’esperienza emotiva non vuol dire necessariamente “agire” quell’emozione. L’emozione, infatti, contiene in sé una spinta verso l’azione, ma le modalità in cui essa può essere o meno espressa variano a seconda della valutazione che, su un piano più cognitivo, mettiamo in atto. Ad esempio, riconoscere di essere estremamente arrabbiati, non vuol dire dare un pugno alla persona che ci ha fatto arrabbiare, potrebbe voler dire comunicarglielo, scegliere il modo in cui farlo e modularne l’intensità.

Sebbene l’emozione, infatti, abbia una caratteristica di primordialità e sia un meccanismo di attivazione dell’organismo di tipo primitivo, è necessaria l’interconnessione con il pensiero per una analisi ulteriore della situazione e per convalidare o modificare le spinte all’azione attivate, oltre che per eseguire praticamente le azioni pianificate in modo da portare ad una modificazione all’ambiente circostante. Tuttavia, tale connessione con il pensiero e la cognizione, spesso, viene sottovalutata, tanto da venire spesso posta in antitesi alla “razionalità”; la verità è che...


le emozioni non sono né razionali, né irrazionali; piuttosto sono adattive. Esse sono segnali interni che ci guidano per garantire la nostra sopravvivenza” (L. Greenberg).


E ancora, come sostiene Eugenio Borgna:

non c’è, del resto, un pensiero che possa fare a meno di un background emozionale, perché la ragione astratta [...] non coglie se non alcuni aspetti (schematici e gelidi) del reale (del reale divorato, oggi, dalla tecnica) e non quelli che, indicibili e in-conoscibili, fanno nondimeno parte integrante del modo di vivere e di sentire di ciascuno di noi” .

Se è vero che le emozioni hanno la caratteristica di essere biologicamente adattive, essa dipende in larga parte dalla possibilità di essere consapevoli delle proprie emozioni, di sperimentare consapevolmente emozioni specifiche come segnali per risposte specifiche. Oltre alla loro attivazione, quindi, esse devono essere consapevolizzate, simbolizzate, differenziate, pensate, ed espresse o agite in modalità accettate dalla cultura di riferimento. Il benessere della persona dipende, dunque, dalla capacità di scegliere come e quando esprimere le emozioni, invece che esserne schiavi e lasciare che controllino la propria vita psichica in maniera automatica.


Vi sono emozioni il cui valore adattivo è più spiccato ed evidente che in altre; per questo sono chiamate emozioni primarie adattive. Altre, invece, nonostante come le precedenti, siano la conseguenza di una valutazione immediata, hanno valore maladattivo poiché non più in grado di favorire un sano interscambio individuo- ambiente, restando molto spesso attive in maniera silente e non potendo subire un processo naturale di esaurimento.

Nelle situazioni di emergenza, quando un grave evento critico ci colpisce, si crea una situazione di elevata emotività, che riguarda l'individuo e l’intera comunità. Le persone vittime di un evento traumatico subiscono uno stravolgimento dell’assetto mentale, emotivo e affettivo e si trovano in uno stato di allarme costante, che compromette il senso di sicurezza. Un evento che accade improvvisamente, irrompe nella vita delle persone, frammentando l’equilibrio precedente e creando una situazione di allerta e disorientamento, con relative reazioni di pericolo e sintomi di ansia. Le reazioni a eventi traumatici possono essere molteplici, soprattutto nei primi giorni.


Quindi, è assolutamente normale ritrovarci a sentirci più paurosi, arrabbiati, tristi, ansiosi: il nostro corpo è in continua valutazione di una situazione che pone non poche sfide e che realmente rappresenta una minaccia all’integrità fisica nostra e dei nostri cari. I disastri sono eventi comuni e complessi, dove la quotidianità e gli aspetti che fino a quel momento davano certezza, diventano instabili. In questo caso, inoltre, vi è un elemento estremamente importante a complicare il tutto: il virus rappresenta una sorta di nemico invisibile e, quando non sappiamo bene da cosa difenderci, la paura può anche portare ad un blocco totale dell’azione dovuto ad uno stato di panico (un po’ come quando alcuni animali si fingono morti per salvarsi da un predatore rispetto al quale la strategia della fuga non ha funzionato). Ciò che è determinante per la nostra salute è quanto a lungo quel blocco si protragga: fisiologicamente, un organismo non può restare per un periodo molto lungo in tale condizione che, a fronte di un apparente stop totale delle azioni, prevede un’attivazione interna estremamente elevata.


Altra reazione, su un versante opposto, è quella della sottovalutazione del rischio e della negazione del pericolo, che ha la funzione di abbassare forzatamente e notevolmente lo stato ansiogeno, fornendo una illusoria sensazione di controllo sull’evento. Se ci pensiamo, del resto, sapere di non avere il controllo su qualcosa può provocare facilmente in noi un senso di agitazione interna. Avere la percezione che la vita proceda normalmente, mantenere le stesse abitudini pre-evento-critico, fa sì che io non percepisca il rischio, lo reputi “lontano da me”, con l'effetto opposto, tuttavia, di non mettere in campo comportamenti di auto-protezione e di protezione di comunità ed avvicinando quel rischio sempre più.


Per questo penso che la sfida maggiore che questa crisi ci stia ponendo, sia proprio sul versante del nostro rapporto con l’impotenza e la perdita di controllo. Ci sono azioni che intelligentemente, per la salvaguardia nostra e altrui, possiamo mettere in atto e che riducono la percentuale di rischio, c’è poi una percentuale sulla quale non possiamo intervenire e che siamo costretti “semplicemente” ad accettare ed integrare.


Non c’è un modo giusto o sbagliato di sentire o di esprimere il dolore, la preoccupazione, l’ansia, la rabbia. Sicuramente non siamo sbagliati se sentiamo queste emozioni dentro di noi. Dare loro spazio, riconoscerle, dire il loro nome, parlarne con una persona fidata, accettarle, sono modi che facilitano un processo di distensione naturale. Bloccarle, negarle, giudicare se stessi perché le si sta provando può, invece, far sì che l’emozione non abbia il giusto spazio per “essere pensata” e che si trasformi direttamente in una azione immediata. La paura che sentiamo ci parla di un pericolo per noi o per gli altri, la tristezza ci parla di perdite che stiamo subendo, su più livelli, rispetto alle quali siamo in continuo processo di lutto, la rabbia ci parla di ferite, di limiti alla nostra integrità che sentiamo labili.


E, allora, forse, la seconda grande sfida che ci troviamo ad affrontare in questi giorni, riguarda la possibilità di guardarci e riconoscerci emozionati, impauriti, tristi, arrabbiati, bisognosi, preoccupati, stanchi, frustrati; la possibilità di dirci che è difficilissimo stare fermi ad aspettare, ma anche che fa paura andare fuori ed agire; di perdonarci se non stiamo reagendo esattamente come ci aspettavamo, perché stiamo scoprendo che non siamo eroi imperturbabili, ma che abbiamo limiti, che siamo umani e, proprio per questo, complessi e ricchi.

81 visualizzazioni0 commenti
bottom of page